Un buon posto in cui fermarsi by Matteo Bussola

Un buon posto in cui fermarsi by Matteo Bussola

autore:Matteo Bussola [Bussola, Matteo]
La lingua: ita
Format: epub
editore: EINAUDI
pubblicato: 2023-05-25T12:00:00+00:00


Misha

(La principessa nel castello)

La bottiglietta di plastica, ancora piena per tre quarti, è appoggiata sul bordo della vasca. La guardo mentre faccio pipí, ha il tappo allentato, il liquido all’interno è ormai sgasato e torbido. È in quella posizione dall’altro ieri. A mamma piace bere bibite fresche quando affonda in un bagno caldo, è sempre stato cosí. Ne ha buttato giú un sorso due sere fa, pregustando il dolce dell’aranciata, si è accorta troppo tardi che si trattava di gassosa al pompelmo. Lei il pompelmo lo odia, allora l’ha lasciata lí.

Me invece mamma non mi odia. Solo che questo figlio storto e solitario è una punizione che sente di non meritare. Un gusto che non riconosce piú. Il dolce che si è rivelato amaro.

Perché, va detto, io ho avuto un’infanzia mediamente felice: genitori presenti quanto basta, amici non troppi ma buoni, risultati scolastici eccellenti. Praticavo pure tennis, mi piaceva, avevo un’ottima resistenza e un rovescio discreto. Ho avuto anche una crush, i primi baci e tutto. Dunque nessun trauma degno di nota. Anzi, fino alla prima liceo è stato come interpretare una vita già scritta, leggere le battute sul gobbo, l’episodio pilota di una teen comedy americana.

Poi, un giorno, senza alcuna avvisaglia, il protagonista adolescente è impazzito, il film è cambiato, gli spettatori hanno lasciato la sala e le bevande sono rimaste abbandonate sui braccioli delle poltroncine, proprio come quella di mamma sulla vasca.

Credo sia partito tutto dalla voglia di deludere, o cosí mi ha detto lo psicologo.

Volevo scompaginare quel piano perfetto, sabotare il percorso già tracciato, non essere piú lo studente modello o il figlio condiscendente, quello che non dà mai problemi. Non è stata una decisione razionale, direi qualcosa di piú simile a una virata improvvisa, seguita da uno schianto, come il drone giocattolo che, a dieci anni, ho fatto precipitare sull’auto di papà.

A un certo punto, stare con gli altri era diventato un lavoro, la fatica di dover indossare perennemente una maschera, di mostrarsi positivi e fiduciosi e perfetti. Ricevere il premio se facevi bene, l’espressione amareggiata quando non eri quel che si aspettavano. Era un doversi adattare di continuo alle loro mute richieste. Una parte di me, invece, voleva essere amata solo perché c’era. Senza premio. Senza merito.

Forse volevo punirmi, forse volevo punire loro.

Ho iniziato con piccole bruciature sugli avambracci, danneggiarmi mi dava la sensazione di essere io a scegliere. Ferirsi è un’azione innaturale. Ma, in quel fallimento, avevo l’impressione di riprendermi la mia vita. Ho scoperto presto che non reggevo il dolore fisico. La mia punizione non si è arrestata per questo, è diventata soltanto piú dolce, ma anche piú radicale.

È diventata scomparire.

Non esco dalla mia camera da un anno e mezzo. In bagno vado solo per i bisogni, oppure per lavarmi un po’ quando i miei non ci sono. Il resto lo faccio tutto nella mia stanza.

Fuori non c’è piú niente, per me. Niente che m’interessi davvero, nulla che mi motivi, ho smesso anche con la scuola perché non sopportavo piú la confusione, le persone, lo spazio attorno che si restringe e ti soffoca.



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